YOGA SUTRA

 

Gli aforismi sullo Yoga di Patanjali costituiscono la prima opera organica della storia della letteratura su una disciplina che, anche in Occidente, è praticata da un numero crescente di persone di ogni età e classe sociale.

Inevitabilmente, ogni cultura interpreta lo Yoga in base ai modelli e alle categorie dì pensiero elaborati attraverso la propria storia.

Inoltre, anche all'interno di una determinata cultura nazionale, alcune scuole privilegiano l'aspetto fisico, altre l'aspetto meditativo, altre ancora mettono l'accento sui poteri - Sidhi che con questa pratica si possono acquisire, ma ciò che unifica è lo spirito di ricerca con cui ci si avvicina a questa esperienza.

Lo Yoga è, prima di tutto, una disciplina e presuppone quindi un atteggiamento di apertura. Questo significa, essenzialmente, che chi intraprende questa via deve essere pronto a imparare.

Affrontato con questa disposizione d'animo, lo yoga diviene un percorso di conoscenza che coinvolge tutti gli aspetti dell'esistenza a livello fisico, mentale e spirituale.

Il protagonista dell'opera di Patanjali è il ricercatore, colui che ha scelto di non proiettarsi nel futuro e di non abbandonarsi al fascino del passato, ma che si muove verso se stesso nella sola realtà esistente: esperienza del qui e ora. La meta non può essere all'esterno: la nostra percezione è condizionata, il mondo fenomenico è illusorio, siamo ''agiti'' dalle passioni, schiavi dei sentimenti e traditi dai giochi della mente.

La ricerca è solo interiore e non c'è bisogno di inventare nulla perché ciò che si ricerca è già dentro di noi, basta fare soltanto un pò di pulizia e rimuovere le macerie che ingombrano la strada della conoscenza.

In questo percorso, gli aforismi sullo Yoga costituiscono una vera e propria guida spirituale: Patanjali ci conduce attraverso questa via di ricerca e, passo dopo passo, ci indica come affrancarci dalle afflizioni dell’esistenza e realizzare la nostra liberazione.

Il punto centrale della ricerca è la liberazione dal ciclo delle morti e rinascite che sono il frutto delle azioni passate: vale a dire, la liberazione dalla perpetua ruota del karma.

''Perché tu sei soggetto alle leggi del karma, delle forze che hanno dominato le tue vite passate: e tutto ciò che, dal tuo punto di vista distorto, vorresti non fare, sarai costretto a farlo, tuo malgrado '' (Bhagavad Gita XVIII, 60).

Il Samkhya studia il rapporto tra le manifestazioni della materia universale (prakriti) e la soggettività consapevole (purusa). Secondo questa dottrina, la materia porta con sé le tre qualità (gunas) che sono: sattva (il principio luminoso), rajas (il principio impuro) e tamas (il principio tenebroso). Il continuo attrito tra queste qualità e la mutevole prevalenza dell'una sulle altre è la causa dello stato mutevole della materia. Dal diverso combinarsi delle tre qualità nascono i Cinque Elementi primordiali: la Terra, l'Acqua, il Fuoco, l'Aria e l'Etere. Così come l'idrogeno, l'ossigeno e l'azoto, combinandosi in diverse percentuali, danno luogo a differenti tipi di atmosfera, l'interazione dei tre gunas esaurisce le possibilità delle popolazioni dell'universo e quindi produce tutti i fenomeni visibili e transitori. Anche le caratteristiche psichiche di un individuo dipendono dalla concatenazione dei gunas: sattva si collega con la conoscenza, con l'armonia e con la beatitudine; rajas ha la natura della passione, è la sorgente del desiderio e dell'attaccamento e conduce all'azione, tamas ha le sue radici nell'oscurità e nell'ignoranza e lega l'uomo all'indolenza e alla pigrizia.

La consapevolezza di (che incorpora la mente, l'intelligenza e l'ego) è anch'essa condizionata dalle qualità della natura che "colorano" le nostre azioni di bianco (sattva) di grigio (rajas) e di nero (tamas).

L'uomo di conoscenza, giunto a riconoscere che le forze della natura sono i soli attori  del vasto dramma dell'esistenza, intraprende il suo cammino di liberazione attraverso lo Yoga: nel Samadhi, egli sperimenta la chiarezza e la purezza di una visione un cui i tre gunas sono in perfetto equilibrio.

 In queste condizioni: "Lo Yogì realizza che il soggetto della conoscenza, gli strumenti della conoscenza e l'oggetto della conoscenza sono una cosa sola. La coscienza diviene un puro cristallo trasparente che riflette l'essenza delle cose".

Vi sono due tipi principali di Samadhi: quello ottenuto con uno sforzo deliberato tramite la concentrazione su un oggetto (Samadhi con "seme") e quello che si ottiene senza alcun supporto (Samadhi senza "seme").

In ogni caso, la possibilità di liberazione attraverso lo Yoga poggia su due pilastri che sono la pratica diligente e continua, ossia l'arte di imparare ciò che si deve imparare attraverso un'azione disciplinata, e il distacco, ossia la capacità di evitare ciò che deve essere evitato e di separarsi dalle false identificazioni.

La pratica è il costante esercizio interiore che richiede dedizione, diligenza, consapevolezza e pazienza; il distacco richiede il ritiro dei sensi dall'azione, l'evitare dei desideri, l'acquietamento della mente e la conquista dell'indifferenza.

E' evidente che in questo tipo di disciplina la mente svolge un ruolo estremamente importante; anzi, si può affermare che tutte le tecniche dello Yoga trattano, in definitiva, del modo in cui usare la mente. In effetti, la mente può essere sorgente di libertà, ma anche fonte di schiavitù:  nel primo caso siamo noi che la usiamo, mentre nel secondo caso ne siamo "agiti".

Quando Patanjali afferma che lo Yoga è la sospensione delle attività della mente, intende dire che, attraverso la Meditazione, la mente cessa di funzionare come "tiranno" e diviene un docile strumento a disposizione del ricercatore. Tuttavia, anche in queste condizioni, la tendenza naturale della mente è quella di rivolgersi all'esterno, verso gli oggetti che appartengono al mondo visibile piuttosto che verso la realtà interiore, ed è proprio la tendenza all'identificazione con gli oggetti dell'esperienza che crea sofferenza e infelicità.

La pratica della Meditazione consiste appunto nel ritirare l'attenzione dal mondo esterno e nel rivolgerla all'interno: in questo lavoro di purificazione e di non identificazione, la consapevolezza di comincia a educarsi e ad affinarsi e si creano le condizioni per una conoscenza di ordine superiore.

In sostanza, questo "Vangelo" dello Yoga tratta in maniera magistrale una materia in cui scienza, arte, tecnica e spiritualità si compenetrano in un manuale che si rivolge a chiunque sia pronto a ricevere l'insegnamento; la tecnica e la chiave di accesso, un'esperienza accessibile a tutti.

Si tratta soltanto di sedersi, chiudere gli occhi e osservare Sé stesso. Con questo semplice gesto consapevole ci poniamo sulla via.

L'opera si compone di quattro sezioni o capitoli. Il primo capitolo, Samadhi Pada definisce lo Yoga, prende in esame gli ostacoli dovuti alle fluttuazioni della mente e indica come superarli. Definisce quindi il Samadhi che è l'ultimo stadio del cammino dello Yoga, e introduce le tecniche di Meditazione con cui il ricercatore si libera dai vincoli che impediscono una chiara visione delle cose.

Nel secondo capitolo, Patanjali torna indietro, per così dire, al livello della spiritualità non ancora evoluta e si rivolge quindi alla coscienza comune: definisce le afflizioni che ne disturbano l'equilibrio e indica come dissolvere le impurità attraverso l'autodisciplina.

In sostanza, all'uomo comune spiega i cinque tipi di afflizione che possono causare dei disturbi nella consapevolezza di , mentre coloro che sono dotati di maggior sensibilità intellettiva vengono  indirizzati allo studio delle cinque fluttuazioni della mente che possono generare le afflizioni.

Il terzo capitolo, Vibhuti Pada tratta dei poteri che si possono acquisire attraverso la pratica dello Yoga. Patanjali non trascura di mettere in guardia il praticante dal pericolo di essere tentato dalla conquista dei poteri e di perdere di vista il senso del cammino spirituale:

"Questi sono poteri quando vengono esercitati sul mondo esterno, ma costituiscono un impedimento nella realizzazione del Samadhi" (IV, 38). Si tratta di un avvertimento molto prezioso che può servire da principio guida per chiunque intenda percorrere questa via: la posta in gioco non è il potere, ma esattamente all'opposto, la conquista dell'indifferenza nei confronti del potere. Il prestigio che può derivare dall'essere un buon allievo o addirittura un maestro di Yoga è il più insidioso degli impedimenti.

Il discepolo che cede alle lusinghe dei poteri rimarrà prigioniero della propria ambizione, ma se riuscirà a resistere avrà accesso allo stadio più elevato dell'esistenza.

Kaivalya Pada, il quarto capitolo, descrive appunto la natura della liberazione distinguendo tra Kaivalya e Samadhi: mentre nel Samadhi il discepolo sperimenta uno stato di unicità, oltre la distinzione tra soggetto e oggetto, nel Kaivalya egli vive la propria esistenza in uno stato positivo in cui non è influenzato dalle qualità della natura e non è identificato con le azioni che compie nella vita di tutti i giorni.

 

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